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2007 12 19 * L'Avvenire * Conclusione buonista su «Repubblica» I cattolici? Supplenti. Il massimo dei laici * Umberto Folena

Cattolici e laici, credenti e miscredenti, è proprio vero che a Natale si diventa tutti più buoni. Sarà qualcosa nell’aria, magari durerà poco, ma l’inchiesta-saga di Repubblica sui "Soldi del vescovo", episodio settimo (più di Guerre stellari), dopo quasi tre mesi si accorge dell’"altra faccia dell’obolo", la carità. La carità è il tratto distintivo dei cristiani di ogni denominazione da venti secoli, ma va bene lo stesso. Il giornale di De Benedetti dà la parola a Giuseppe De Rita e a don Luigi Ciotti, e intervista il cardinale di Curia Sergio Sebastiani. Ricorda l’impegno per i poveri e gli immigrati, la presenza nelle periferie più degradate, la tenacia con cui la Chiesa sa restare a servizio della gente anche là dove gli altri scappano o latitano. Buon Natale, davvero.

Alla fine delle due pagine rimane però almeno un dubbio. Perché i cristiani praticano la carità? Secondo Repubblica, esiste «un tacito patto: mentre la mano pubblica smantella il Welfare, quella vaticana tappa le falle più evidenti». La Chiesa crocerossina e tappabuchi fa comodo, insomma. I volontari della Caritas sospirano: il Vaticano qui in parrocchia? Alla mensa? Alla comunità terapeutica? Per certa stampa "Vaticano" è sinonimo di "cattolico": la Cei è Vaticano, l’otto per mille va al Vaticano, insomma siamo tutti guardie svizzere. «Così la Chiesa sostituisce lo Stato», è il titolone. Il primo cristiano a fare la carità quotidiana, «sostituendosi allo Stato», fu – perdonateci la battuta – San Pietro. I cristiani proseguono quell’opera, in modo imperfetto, come ne sono capaci, senza sostituirsi a nessuno e senza alcun patto tacito. I cristiani facevano ospedali e scuole, organizzavano mense e ricoveri, soccorrevano vedove e orfani prima della Repubblica, prima del Regno, fin da quando l’Italia era davvero una "poltiglia", nel senso che non esisteva se non come vaga idea.

Se un patto c’è, poi, non è tacito ma palese. È la premessa del tanto vituperato Accordo concordatario del 1984, là dove nel primo articolo Stato e Chiesa affermano di stimarsi reciprocamente e di voler collaborare avendo a cuore entrambi un solo bene, il bene del Paese. Collaborare, non competere. La Chiesa e i cristiani in Italia sono riconosciuti come una risorsa, non come un ostacolo da rimuovere o un fastidio da sopportare. Se già fanno (abbastanza) bene ciò che fanno da secoli, ossia ospedali, scuole, comunità, mense…, perché hanno affinato una particolare sensibilità che li fa entrare in immediata sintonia con i bisogni reali della società, uno Stato che persegue il bene dei cittadini mette quei cristiani nelle condizioni di operare in libertà. Perché ci crede; perché gli conviene.

Se però il rapporto non è concepito per quello che è e dev’essere, stando alla lettera e all’intenzione dell’Accordo, ossia di stima e collaborazione, ma l’unica chiave di lettura è il puro e semplice potere, allora anche le mense e le comunità terapeutiche, in quest’ottica ideologica, possono essere interpretate come una strategia vaticana (sic) di occupazione del territorio.

Potere e ideologia spingono a "misurare" la "forza" cattolica in termini di voti. Secondo Repubblica, «l’elettorato cattolico» vale tra il 6 e l’8 per cento. Perché non l’1, perché non il 99? I cattolici italiani soldatini obbedienti, i vescovi generali obbedienti alla direttive vaticane… Obbedienti sì, ma a Gesù Cristo (e mai abbastanza). Da qui nasce la carità (mai abbastanza pure lei). Questo è il grano. Il resto è pula.