Perché alcuni immobili della Chiesa cattolica sono esenti dal pagamento dell'Ici? E da quando questa agevolazione è riconosciuta? Se chi ha scritto o parlato di «privilegi» concessi alla Chiesa si fosse posto queste due semplici domande e avesse anche tentato di darsi una risposta documentata, probabilmente il dibattito di questi giorni avrebbe preso una piega un po' diversa. Si sarebbe scoperto infatti che le esenzioni dall'imposta comunale sugli immobili non sono una concessione ad hoc, e non nascono né l'anno scorso né con il governo Berlusconi (si veda box in alto), ma risalgono al 1992, quando il governo Amato istituì l'Ici. Ma, soprattutto, si sarebbe appreso che la Chiesa è soltanto uno dei moltissimi soggetti risparmiati dall'Imposta, e che l'esenzione vale solo in alcuni casi e molto circoscritti. Confidando nella buona fede e nell'onestà intellettuale di coloro che stanno discettando su Ici e dintorni, proviamo allora a colmare questo vuoto informativo. Quando infatti venne "inventata" l'imposta comunale sugli immobili (decreto 504/1992), si stabilì in parlamento di escludere alcuni tipi di fabbricati. Ad essere esenti sono così da sempre gli edifici che appartengono allo Stato o agli altri enti pubblici come i comuni, le province, le regioni, le Asl, gli ospedali, le scuole, le camere di commercio. Gli immobili di proprietà degli Stati esteri e delle organizzazioni internazionali. Tutti i terreni agricoli montani anche se di proprietà di privati. Gli edifici di biblioteche o musei. I fabbricati destinati all'esercizio del culto, ovviamente non solo della Chiesa cattolica. A questa lista già di per sé abbastanza significativa, il legislatore ritenne - probabilmente nell'ottica di valorizzare il principio di sussidiarietà e di agevolare il grande universo del privato sociale italiano, del volontariato e del non profit - di aggiungere una categoria speciale di soggetti: gli enti non commerciali, ma solo se negli immobili in questione si svolgono in maniera esclusiva otto attività considerate meritevoli. Eccole: attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive. In buona sostanza, la legge del 1992 scontava l'Ici a tutte quelle realtà che operano senza scopo di lucro, cioè senza ridistribuire i profitti ai soci, e attive in questi otto settori. Niente di più e niente di meno. L'assenza di un privilegio mirato dovrebbe risultare abbastanza evidente. E a chi conosce un poco la società italiana, non sfuggirà che la legge finisce per "agevolare" la Chiesa cattolica, oltre al caso dei luoghi di culto, solo quando questa svolge, come moltissime altre organizzazioni, quelle attività previste nella lista. Ma queste e non altre. Per essere più chiari si possono fare degli esempi, che non riguardano solo la Chiesa cattolica, ma tutto il mondo del non profit. Cioè associazioni, grandi Fondazioni, sindacati, movimenti politici, partiti e non solo. Così, attività di «assistenza» sono le mense per i poveri, le comunità di accoglienza, le case di riposo, le strutture per il sostegno alle persone del Terzo Mondo. Le attività «sanitarie» sono ospedali o case di cura rigorosamente non profi convenzionate con il Servizio sanitario nazionale. Le opere «didattiche» sono ovviamente le scuole, dalle materne in su, se chi le gestisce non si divide gli utili. Per «ricettive» si intendono invece tutte le strutture sociali che accolgono i lavoratori fuori sede, gli studenti, le case per ferie ? delle parrocchie come dei sindacati ? se autorizzate dalle regioni; ma non certo gli alberghi, che l'Ici la pagano anche se sono di proprietà di qualche ente religioso. Continuando, si arriva alle attività «culturali», come i tanti centri di cultura, laici, politici, e certamente non solo cattolici, presenti in Italia. Alla voce attività «ricreative» si pensi invece ai circoli Arci o Acli. Per finire con tutte le attività «sportive» senza finalità di lucro, promosse da laici, da religiosi, o anche da organizzazioni locali ispirate dai partiti. Compreso questo, una domanda dovrebbe sorgere spontanea. È ancora possibile parlare di «privilegi» concessi solo alla Chiesa cattolica? |
Il caso
La diatriba sulle agevolazioni Ici ha origine con una sentenza della Cassazione del 2004. I giudici, valutando il caso dell'immobile di un ente non profit che svolgeva attività sanitaria e ricettiva - e dunque rientrava a pieno titolo nella casistica delle esenzioni previste dalla legge del 1992 sull'Ici - avevano negato il diritto all'esenzione in quanto l'attività era svolta «in forma commerciale». L'interpretazione restrittiva delle legge da parte della Cassazione finiva in sostanza per aggiungere un terzo requisito (oltre a quello della non commercialità dell'ente e dell'attività meritoria prevista nelle legge del 1992), cioè il fatto che l'attività era commerciale. Il problema è che per la normativa italiana un'attività si intende «commerciale» in tutti i casi in cui viene incassata una somma, non importa quanto. Esempio: un servizio di docce per senza tetto viene considerato «commerciale» se chi ne usufruisce paga anche solo 50 centesimi. Per sciogliere un nodo che avrebbe potuto creare innumerevoli problemi a tantissime realtà, nel 2005 il governo Berlusconi varò una norma di interpretazione autentica della legge per chiarire che l'esenzione doveva essere riconosciuta alle attività previste «a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse». Non si trattò dunque di alcun favore concesso alla Chiesa cattolica, come molti sostengono. Il decreto Bersani-Visco del 2006 ha successivamente aggiunto che l'esenzione va applicata alle attività indicate che non abbiano natura «esclusivamente commerciale». E l'esame dei singoli casi dubbi è affidata una commissione. |