INTERVISTA L’EX DIRETTORE DEL SUPERCARCERE DELL’ASINARA INTERCETTÒ PER CONTO DEL GENERALE DALLA CHIESA LE CONVERSAZIONI DEI BRIGATISTI DETENUTI. E SCOPRÌ I LORO CONTATTI CON UN DEPUTATO, UNA DONNA DI CULTURA E UN MAGISTRATO DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA.
“Ero io a intercettare le conversazioni fra i brigatisti detenuti. Me lo avevano chiesto i servizi segreti e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a cui passai informazioni preziosissime. Ma per quella vicenda finii sotto inchiesta. Così, dopo avere trascorso 18 anni della mia vita a difendere lo Stato, ne ho spesi altri 22 a difendere me stesso. Ora, però, avrei qualcosa da dire...».
Si chiama Luigi Cardullo ed era il direttore del carcere di massima sicurezza dell'Asinara l'uomo che siede di fronte al giornalista di Panorama. Ha superato i 70 anni e non ha mai rilasciato un'intervista. Ha accettato l'incontro dopo aver letto (Panorama 14) l'articolo su una conversazione, intercettata e registrata, tra due brigatisti rossi detenuti, un documento che i magistrati del caso Moro non poterono mai utilizzare perché secretato.
Il colloquio è durato per un paio d'ore. La storia che Cardulloha raccontato è sconvolgente: tre celebri personaggi erano molto vicini al vertice delle Brigate rosse, ma i loro nomi, benché noti ai servizi segreti e a Dalla Chiesa, non sono mai comparsi nelle inchieste sul terrorismo.
Il primo era un noto politico e mitica figura di partigiano, il «Vecio», come lo chiamavano familiarmente i brigatisti. Il secondo, la« Zia», era una donna di cultura assai famosa. Il terzo, ancora più insospettabile, era un alto magistrato.
Cardullo, lei conosce i nomi di quei tre personaggi?
Sì. Come li conoscevano i servizi e Dalla Chiesa.
Li dica anche ai lettori, allora.
Vedrà che i lettori di Panorama sapranno identificarli con precisione dai dettagli del mio racconto.
In che periodo lei è stato all'Asinara?
Dal 1974 al 1980.
Che rapporti aveva con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa?
Di massima collaborazione. E anche di amicizia. Tanto che quando venne mandato a Palermo mi propose di seguirlo, io accettai e chiesi il trasferimento, che mi venne però negato. Lui insistette, ma poi venne assassinato.
Era il suo «orecchio» all'interno dell'Asinara?
Sì. Perché in quel periodo all'Asinara erano detenuti tutti i brigatisti di maggior spicco.
Fu lui a chiederle di intercettare le loro conversazioni?
Dalla Chiesa, certo. Ma anche i capi dei servizi segreti: i generali Giulio Grassini e Giuseppe Santovito, che all'epoca erano direttori rispettivamente del Sisde e del Sismi.
Perché glielo chiesero?
Aldo Moro era stato appena assassinato e volevano che «monitorassi» i brigatisti detenuti perché sospettavano che avessero relazioni con personaggi eccellenti all'esterno del carcere. Dalla Chiesa e i capi dei servizi mi chiesero di aiutarli a scoprire la verità sul caso Moro.
E lei la scoprì?
Ascoltando i detenuti raccolsi molte informazioni che passai a Dalla Chiesa e ai servizi. Tenga presente che le intercettazioni durarono due anni e mezzo, dall'estate del 1978 al 1980, quando dovetti lasciare il carcere.
Quindi la conversazione di cui ha scritto «Panorama» non fu né la prima né l'ultima da lei intercettata?
È così.
Sull'identità di quei due brigatisti si sono dette molte cose. Chi erano?
Giuliano Naria e Horst Fantazzini. Il primo era un brigatista rosso accusato dell'omicidio del giudice Francesco Coco, a Genova. Il secondo veniva dalla delinquenza comune e si era «politicizzato» in carcere.
Perché nel documento che venne poi trasmesso ai magistrati i loro nomi e parte del contenuto della loro conversazione erano stati secretati?
Perché c'erano cose imbarazzanti. Per esempio, l'accenno a un inchino di Moro davanti alla bandiera delle Brigate rosse. E poi la citazione di una frase in cui il presidente democristiano manifestava ai brigatisti il suo stupore nell'apprendere che alcuni amici delle Br erano anche i suoi.
Chi?
Il riferimento era ai «Sordi»... Ma non saprei dire chi fossero.
In quel documento si dice che diversi brani della conversazione non erano comprensibili a causa della presenza di rumori di fondo.
No, no, erano comprensibilissimi. La registrazione era pulita.
Quale tecnica di intercettazione usava? Insomma, aveva fatto mettere delle microspie nelle celle?
No, le celle erano il luogo meno adatto, perché il più sospettabile. Avevo fatto predisporre le miscrospie in un punto di passaggio del carcere, un luogo dove i detenuti che entravano o uscivano erano costretti a sostare. E da lì partiva una linea di cavi interrati lungo un percorso di 1 chilometro e mezzo, fino alla mia stanza da letto. Dove avevo fatto collocare quattro apparecchi per la registrazione, nascosti in alcuni cassetti: funzionavano a scatto, cioè a voce. E da lì ascoltavo tutte le conversazioni.
E ascoltando lei ha saputo dell'esistenza del Vecio e della Zia?
Sì, ascoltando. Ma anche leggendo alcune lettere che entravano e uscivano dal carcere clandestinamente e che io riuscivo a intercettare.
Dunque chi era il Vecio?
Triestino, deputato del Pci nel 1958, senatore nel 1963, uomo di mille battaglie, rivoluzionario che aveva conosciuto tutte le carceri, comandante del V reggimento nella guerra di Spagna, dirigente internazionale del Soccorso rosso e in contatto con la polizia segreta sovietica, l'ultimo italiano al quale venne permesso di rimpatriare, nel 1947, perché si temeva che organizzasse da noi un altro V reggimento... Sono sicuro che i lettori di Panorama lo hanno già identificato. Intercettammo anche una sua lettera a Renato Curcio, in cui progettava un assalto al carcere dell'Asinara. Per liberare i detenuti politici, o ucciderli, se il piano non fosse andato in porto. In un modo o nell'altro dovevano impedire che i brigatisti passassero informazioni pericolose.
E la Zia chi era?
Una dirigente del Soccorso rosso italiano negli anni Settanta, un personaggio molto in vista, una donna di cultura che in quel periodo manteneva i contatti con i detenuti per ricostruire la rete dell'organizzazione nelle carceri. Venne anche all'Asinara.
L'ha conosciuta personalmente?
Sì. Una volta venne nell'isola e mi disse: «Sappia che io non ho niente contro di lei, ma sappia anche che tutto quello che potrò fare contro di lei, lo farò».
È ancora viva la Zia?
Sì.
Che cosa può dire, invece, dell'alto magistrato?
Che fu all'origine delle mie disavventure giudiziarie.
Non sarà che lei ora cerchi di vendicarsi?
Quello che ora le dirò potrà sempre tentare di verificarlo, se gliene daranno la possibilità.
Dica, allora.
Capii subito che la notizia delle intercettazioni all'Asinara, che doveva restare segreta, aveva cominciato a girare.
Chi lo sapeva, oltre a Dalla Chiesa e ai vertici dei servizi?
Il direttore generale degli istituti di pena Giuseppe Altavista, che mi aveva dato l'autorizzazione. La notizia filtrò dagli ambienti del ministero della Giustizia, che pullulava di talpe brigatiste.
Altavista?
No, lui mi proteggeva. Posso dirle questo, che un magistrato del ministero cominciò a scrivere relazioni contro di me. E contestualmente cominciò la campagna brigatista intitolata «Chiudere l'Asinara con ogni mezzo».
In effetti, l'obiettivo fu poi raggiunto.
Sì, dopo il sequestro di Giovanni D'Urso, magistrato della direzione generale dell'Istituto prevenzione e pene del ministero della Giustizia, avvenuto nel dicembre del 1980. Ma prima caddero uno dopo l'altro tutti i miei protettori.
Cioè?
Morirono tutti, chi di morte naturale, chi assassinato. Prima Giuseppe Altavista. Poi due aspiranti alla sua successione: d'infarto, a 50 anni, Buondonno, collaboratore anche di Dalla Chiesa; e, assassinato dalle Br, Girolamo Minervini. Poi, un altro collaboratore di Dalla Chiesa, il suo segretario, colonnello Cagnazzo, in un incidente aereo mentre rientrava dall'Asinara, dove aveva preso le carte sul Vecio e sulla Zia. Poi il generale Enrico Galvaligi, alter ego di Dalla Chiesa, assassinato dalle Br. E infine lo stesso Dalla Chiesa, ucciso a Palermo.
Fa impressione, il suo elenco.
E sì, fa impressione. Ma non ho finito. In cambio della vita di Giovanni D'Urso, le Br chiesero e ottennero la mia testa. Il carcere dell'Asinara fu chiuso. E subito dopo iniziò la mia vicenda giudiziaria, durata 22 anni: finii sotto inchiesta e condannato a 5 anni per corruzione e truffa, reati per i quali mi sono sempre proclamato innocente.
Chi era quel magistrato che scriveva relazioni contro di lei?
Lavorava al ministero della Giustizia, nella stessa stanza del giudice D'Urso. Su di lui venne condotta un'inchiesta segreta, iniziata già dal generale Dalla Chiesa, di cui però non si è mai saputo nulla. Quel giudice venne poi assassinato in un paese arabo, da un terrorista islamico, e la sua storia archiviata.
Perché, signor Cardullo, la sua attività all'Asinara era così pericolosa?
Perché stavo raccogliendo informazioni sul livello più alto delle complicità con il terrorismo rosso. Un livello che non doveva neppure essere sfiorato. Me lo diceva spesso anche Dalla Chiesa: «Cardullo, vogliono che io mi occupi solo della marmaglia».