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2004 03/04 * MondOperaio * Inchiesta sulla finanza vaticana * di Antonio Landolfi

SINTESI INIZIALE

E’ difficile smentire l’affermazione che lo Ior sia una multinazionale in piena regola: probabilmente la più grande multinazionale che esista. E che sicuramente non opera secondo il detto di Cristo: “Il mio Regno non è di questo mondo”. In questo mondo regna invece il Dio del denaro, Mammona, cui la finanza, anche quella a targa confessionale, sacrifica molte cose. Anche la dottrina sociale della Chiesa. I discorsi sulla dottrina sociale e sull’economia etica sono scomparsi d’un colpo, alla fine degli anni Novanta, quando i risparmiatori si sono gettati alla ricerca e alla sottoscrizione di azioni e obbligazioni

FINESTRE

1) Lo scandalo del Banco ambrosiano, culminato con il suo fallimento e la tragica fine del banchiere Calvi, ha costituito la più clamorosa occasione per mettere in evidenza l’attività finanziaria vaticana.

2) Solo il 20% dei contribuenti italiani sottoscrive l’otto per mille alla Chiesa Cattolica: uno su cinque, che però, grazie ad uno dei tanti miracoli dell’universo religioso, vengono triplicati.

3) Il valore effettivo delle monete coniate dall’Apsa è sensibilmente superiore a quello nominale, essendo indirizzate soprattutto ai collezionisti.

4) E’ difficile ritenere che la massa dei depositi che occupa le casse dello Ior possa provenire nella sua maggior parte dall’interno delle mura del piccolo Stato.

5) Gli interessi che vengono pagati ai depositanti dello Ior s’aggirano intorno al 12 per cento. Un livello che ha pochi eguali nel mondo: forse se ne trovano di simili solo nelle zone dei paradisi fiscali.

6) Un istituto di credito con un solo sportello a Roma, racchiuso tra le mura vaticane, può agire indisturbato in ogni parte del mondo, valendosi della propria immunità.

7) C’è stato sempre un occhio di riguardo della finanza vaticana e della stessa Santa Sede per il mondo bancario della Repubblica Elvetica.

8) Si deve tener conto del vasto potere che la finanza cattolica conta nel campo delle fondazioni bancarie, che sono in possesso dei pacchetti azionari delle maggiori banche.

* * *

“La classe operaia a tavola se lagna: per monsignor Cippico invece che cuccagna!”. Così si cantava nelle sfilate della sinistra nei primi anni dell’Italia repubblicana, quando il Pci di Togliatti finanziava le campagne anticlericali dei settimanali “Don Basilio” e “Cantachiaro”. Monsignor Cippico era il nome del prelato che all’epoca era il tesoriere della finanza vaticana un po’ nota e un po’ segreta, e al suo nome era legato il primo scandalo che lambì le attività in questo campo della Santa Sede.

La sinistra ci dava sotto, senza risparmiare colpi: il laicismo era una bandiera al vento, e di colore rosso. Poi il rosso sbiadì. Altri scandali, nel corso degli anni vennero alla luce, da quello Sindona, a quello legato al caso Calvi, e mano a mano la polemica laicista si andò affievolendo. 

La fine dell’unità politica dei cattolici, seguita dal crollo del comunismo, la cui minaccia, vera o presunta che fosse, quell’unità aveva generato, ha finito per allocare gli accampamenti cattolici in entrambi i poli. Il risultato più evidente agli occhi di tutti è che del laicismo s’è persa ogni traccia, e della questione della finanza vaticana è scomparso persino il ricordo.

D’improvviso il caso Cirio e il caso Parmalat, e le critiche alla mancata vigilanza da parte della Banca d’Italia, hanno in qualche modo riportato a galla qualche spezzone della questione. E la stessa sinistra sembra non sentirsela più di fare orecchi da mercante sulla gestione dell’Istituto di emissione, sia pure con qualche eccezione, come quella dell’onorevole Visco, Ministro delle finanze, nei governi dell’Ulivo.

I dati della questione – vogliamo ricordarli – sono inoppugnabili. Quando nel 1993 l’allora Governatore della Banca d’Italia, classificato giustamente come un esponente del laicismo moderato, fortemente presente nella finanza pubblica, fu chiamato a dirigere le sorti barcollanti del governo del Paese, al suo posto non pervenne un altro laico, bensì il cattolico Fazio, che fu preferito ad un altro candidato in odore di laicità. Non si attese nemmeno che le Camere accordassero la loro fiducia al Governo Ciampi: la nomina di Fazio fu contestuale alla presentazione della lista dei ministri da parte del Presidente designato, per cui si corse il rischio che se Ciampi non avesse ottenuto la fiducia, avrebbe potuto restare fuori da tutto.

Un altro cattolico, Lamberto Dini, trovò più vantaggioso lasciare la carica che ricopriva a palazzo Koch, per diventare Ministro del tesoro – vistasi ormai sbarrata la strada dell’ascesa all’interno di quello che era ancora l’Istituto di emissione – ma nello schieramento opposto a quello di Ciampi, cioè nel primo Governo Berlusconi, per poi traslocare armi e bagagli dopo il ribaltone, assumendo la Presidenza del Consiglio e successivamente, dopo le elezioni del 1996, la carica di Ministro degli esteri.

In tutto questo tempo la finanza cattolica in Italia ha avuto una rinnovata fioritura, anche grazie alla pressoché totale privatizzazione del sistema bancario nazionale, che con la legge del 1998 sulla vigilanza ha dato alla Banca d’Italia i poteri per guidare il processo che poneva fine al sistema precedente fortemente pubblicizzato.

Dalla privatizzazione, così guidata, sono conseguite fusioni, assorbimenti, concentrazioni che hanno modificato profondamente tutto il sistema bancario nazionale. Sono sorti alcuni colossi, che, benché sempre di proporzioni minori rispetto ai colossi internazionali ed in particolare europei, hanno assunto un peso enorme nella vita economica e finanziaria del Paese.

Alcuni di essi sono nelle mani di banchieri di inconfutabile area cattolica, che godono piena fiducia negli ambienti vaticani. In primo luogo Capitalia, guidata da Geronzi; Banca Intesa, guidata da Bazoli; banche che non risultano affatto estranee alle stesse vicende della Cirio e della Parmalat.

Quel che è inoppugnabile è l’emergere di un intreccio massiccio tra banche ed imprese, cioè di un sostanziale conflitto di interessi che si è tradotto a danno dei risparmiatori. Si veda ad esempio la composizione del consiglio d’amministrazione di Capitalia: da Ligresti a Colaninno a Tronchetti Provera, a volte in prima persona o con i propri rappresentanti.

La Banca Intesa di Bazoli ha rinnovato nei giorni scorsi il suo CdA, assemblando rappresentanti di istituti di credito italiani e stranieri (il Credit agricole) e società, come le Generali, la ex Banca commerciale, la Cariplo. Uno schieramento importante, nelle salde mani di chi aveva risanato quel Banco ambrosiano pilastro della finanza cattolica, dopo la vicenda Calvi.

Senza alcun dubbio lo scandalo del Banco ambrosiano, culminato con il suo fallimento e la tragica fine del banchiere Calvi, ha costituito la più clamorosa occasione per mettere in evidenza l’attività finanziaria vaticana, ben più degli scandali legati al nome di monsignor Cippico o a quello dello stesso Sindona.

Bazoli ha avuto il merito di compiere autentici miracoli rimettendo in piedi l’istituto travolto dallo scandalo, mutandone il nome in Nuovo banco ambrosiano, prima di inserirlo nel contesto del grande gruppo dell’Intesa, sempre come uno dei pilastri del mondo finanziario cattolico.

Tuttavia l’operazione di salvataggio non avrebbe potuto aver successo, nonostante l’indubbia capacità mostrata dal Bazoli, se il Vaticano non avesse, di fatto, riconosciuto la responsabilità della sua stessa banca, l’Istituto per le opere di religione, facendo sborsare allo Ior una congrua somma di denaro. Nel maggio del 1984 l’Istituto per le opere di religione versava la somma di 240 milioni di dollari in soccorso del Banco ambrosiano, nelle cui attività fallimentari lo Ior si dichiarava “involontariamente coinvolto”. Se il coinvolgimento a giudizio degli ambienti vaticani era stato “involontario”, l’esborso sarebbe stato all’opposto “volontario”, così lo definì l’“Osservatore Romano” che, in data 4 giugno 1984, scriveva: “Il contributo volontario ha teso a tacitare una soluzione globale per il consolidamento anche dei rapporti internazionali”. 

In realtà, il “contributo” metteva a tacere un’orda incalzante di creditori di ogni paese del mondo, che non mostrava alcuna intenzione di demordere dall’obiettivo di coinvolgere lo Ior, e quindi il Vaticano, nello scandalo del fallimento dell’Ambrosiano. Allo stesso tempo, però, versando la cospicua somma – osserva Charles Raw, autore del fortunato best-seller sulla vicenda, The moneychangers – “lo Ior aveva, di fatto, abbandonato il diritto a rivendicare la propria innocenza”.

Non vogliamo né possiamo addentrarci nella complessa vicenda dell’affare Ambrosiano. Ci preme solo rilevare il ruolo che in essa la Ior e con essa il cardinale Marcinckus, che portò alla luce i meccanismi reali dell’attività della finanza vaticana, che riuscì a tirarsi fuori dalla vicenda grazie ad un sostanziale “patteggiamento” che costò alle casse della Santa Sede un esborso non indifferente.

Il meccanismo finanziario veniva nell’occasione così ben descritto nello stesso libro di Charles Raw: “L’Italia, come molte altre Nazioni, riteneva che, per salvaguardare la propria moneta, fosse necessario imporre rigide leggi contro l’esportazione di capitali all’estero. Ma a differenza di qualsiasi altro Paese, l’Italia nel cuore della sua capitale ospitava uno Stato straniero, il Vaticano, che non era sottoposto alle sue leggi. Facilmente accessibile ai cittadini e alle banche italiane, lo Ior rappresentava la via preferita da quanti praticavano il contrabbando di valuta”. Più chiari di così è difficile essere. E si tenga presente che il libro di Raw ha avuto un primato di vendite, anche in Italia. L’analisi in esso contenuta non è stata mai smentita perché non poteva esserlo.

Ne abbiamo infatti riportato il succo, la conclusione, che viene corredata nel volume da una documentazione del tutto inconfutabile.

Nel ventennio successivo a questi eventi, molte cose sono cambiate. Le leggi restrittive sul movimento dei capitali sono state, in larga misura, abbandonate in virtù della globalizzazione e di nuove misure dettate dalle autorità europee, e quindi l’attività che avevano fatto ricca la banca vaticana e garantito lo strapotere di Marcinckus, sono divenute molto meno rilevanti.

Il raggio d’azione della finanza vaticana, e dei suoi discreti ma formidabili operatori, è andato di conseguenza spostandosi in altri campi e assumendo altre dimensioni. Per cominciare, va ricordato come l’oneroso contributo “volontario”, versato al comitato dei creditori internazionali dell’Ambrosiano, abbia finito per agevolare l’opera di risanamento di quella banca risorta dalle ceneri del fallimento con il nome di Nuovo banco ambrosiano, grazie all’opera del geniale finanziere cattolico Bazoli, e divenuto successivamente il più importante gruppo bancario, Banca Intesa, con l’assorbimento di alcune grandi aziende di credito quali, tra l’altro, la Banca commerciale e la Cassa di risparmio delle province lombarde (Cariplo), oltre che ad assorbire un notevole numero di banche del Mezzogiorno.

L’estensione dell’insegnamento della religione cattolica dalla fascia delle scuole medie a quella delle scuole materne ed elementari, oltre a comportare un’inaccettabile esclusiva vescovile sulla selezione degli insegnanti – per cui si è arrivati ad escludere d’imperio chi non era sposato ma in odore di peccato perché convivente – ha comportato la duplicazione del numero dei docenti con grave appesantimento della spesa sostenuta dallo Stato, che ha finito per aggirarsi sui 1200 miliardi annui di vecchie lire, cui vanno aggiunti gli oneri previdenziali che andranno crescendo con il tempo. 

Tutto questo finisce in realtà per rovesciare il dettato della norma costituzionale che assicura la libertà di insegnamento e l’istituzione di scuole private – che in Italia sono nella massima parte cattoliche – ma senza che ne vengano oneri per lo Stato.

Con le norme del 1984 gli oneri dello Stato vengono addirittura raddoppiati per assicurare l’insegnamento confessionale nella scuola pubblica.

Quanto alla scuola privata, anche per essa la spesa statale si appesantisce sempre di più, com’è dimostrato dalle annuali erogazioni che governi italiani, di qualsiasi colore politico, non cessano di elargire.

Il patto del 1984 decideva di affidare decisioni rilevanti in materia finanziaria ad una commissione paritetica: sia per quanto riguarda problemi tributari degli enti ecclesiastici, sia per quanto riguarda gli oneri che lo Stato va di volta in volta assumendosi quali suoi impegni finanziari. Tale commissione ha il compito di stabilire l’entità della spesa pubblica sui vari capitoli per i quali ha piena competenza: quello delle retribuzioni dei docenti di religione, e quello della tutela dei beni storici e culturali religiosi che, in Italia, sono un’infinità. 

La tutela e la conservazione di questi beni a carattere religioso è affidata ad una competenza mista tra lo Stato italiano e quello della Città del Vaticano, ma la spesa ricade sul bilancio della Repubblica: una spesa che è di difficile determinazione, ma sempre di dimensioni non indifferenti, che hanno raggiunto l’apice in occasione della preparazione dell’anno giubilare del 2000. In questi campi è indubbio che si sono registrati regressi rispetto alla stessa pattuizione del 1929.

Tra i meccanismi previsti dalle norme del 1984 c’è quello dell’otto per mille, di cui la Chiesa cattolica è la maggior beneficiaria – rispetto agli altri culti ad esso ammessi – per l’entità della popolazione che sottoscrive a favore di essa. Che, in effetti, non è più ampiamente maggioritaria da circa sessant’anni, anche se resta in maggioranza relativa. 

Infatti, solo il 20% dei contribuenti italiani sottoscrive l’otto per mille alla Chiesa Cattolica: uno su cinque, che però, grazie ad uno dei tanti miracoli dell’universo religioso, vengono triplicati. Divengono due su tre quelli che firmano nella dichiarazione Irpef (che ora diverrà Ires) di cui appunto l’otto per mille devoluto alla finanza della Santa Sede. Come avviene il miracolo annuale? Semplice: le norme del 1984 stabiliscono che i contribuenti che non si pronunciano per nessuno dei culti – oltre il 67 per cento – vengano conteggiati anch’essi nella ripartizione complessiva. Più facile moltiplicare in tal modo i soldi da incassare, che moltiplicare pani come faceva Gesù in quel di Cana. 

Si obietta che le cifre che il 65 e più per cento dei contribuenti non dichiarano di devolvere a nessun culto, non sarebbero destinate a nessun altro. Non è vero, perché esse andrebbero alle casse dello Stato italiano, mentre il meccanismo escogitato nella pattuizione del 1984 fa sì che questi soldi finiscano alla Chiesa cattolica in misura tripla rispetto al dovuto. In buona sostanza si è messo in moto un ulteriore finanziamento da parte dello Stato alla Chiesa, che in tal modo nel 2002 ha raccolto 903 milioni di euro (al posto dei 303 che senza tale meccanismo avrebbe dovuto ricevere) e per il 2003 supererà i mille milioni.

È la Commissione episcopale italiana a decidere la ripartizione delle spese finanziate 

mediante le entrate che affluiscono dall’8 per mille: per le esigenze del culto; per il sostentamento del clero; per gli interventi caritatevoli attraverso le organizzazioni quali la Caritas, sostenute anche da finanziamenti delle regioni e degli enti locali e gli appalti concessi alle opere di religione; per i beni artistici e culturali religiosi; per le chiese e le case canoniche nel Mezzogiorno; per il terzo mondo; per le altre attività.

Il patrimonio, che in Italia comprende il 70 per cento dei beni artistici e culturali, è immenso.

Esso viene gestito dalla Prefettura degli affari economici, l’organo della curia romana guidato attualmente dal cardinale Sebastiani che controlla i bilanci dell’Apsa (“amministrazione del patrimonio della sede apostolica”); e dallo Ior, l’Istituto delle opere di religione, la banca vaticana che anche dopo le vicissitudini di monsignor Marcinckus resta il pilastro della finanza cattolica. 

L’Apsa prese avvio con i Patti lateranensi, quando il cospicuo indennizzo versato dallo Stato italiano per chiudere la questione romana affluì nella amministrazione dei beni della Santa Sede, che dal 1967 divenne la sezione ordinaria dell’Apsa. Attualmente l’Apsa gestisce un patrimonio consolidato di 700 milioni di euro, ed è diretta da un segretario generale, monsignor Celli, con la supervisione di una commissione di sette cardinali presieduta da monsignor Nicora, che è ritenuto essere stato l’ideatore del proficuo (per il Vaticano) meccanismo dell’8 per mille. Consulenti dell’Apsa sono alcuni dei maggiori economisti e finanzieri cattolici di ogni parte del mondo. In sostanza l’Apsa è la banca di emissione del Vaticano, e per la sua attività in ogni parte del mondo ha il riconoscimento del Fondo monetario internazionale. Nel 1998 l’Unione Europea, nonostante che lo Stato della Città del Vaticano non faccia parte dell’unione monetaria, ha autorizzato l’Apsa ad emettere ogni anno banconote per 670.000 euro, più altre emissioni per alcuni eventi straordinari, quali l’apertura di un Concilio ecumenico o di un anno santo, quale quello del 2000.

Si tenga presente che il valore effettivo delle monete coniate dall’Apsa è sensibilmente superiore a quello nominale, essendo indirizzate soprattutto ai collezionisti: un valore che cresce a dismisura con il passare del tempo.

All’Apsa affluiscono i contributi dalle oltre 1.400 diocesi vescovili: non un granché per la verità, nel 2002 poco più di 85 milioni di euro. Ben più consistente è il patrimonio immobiliare su cui l’Apsa può contare. Oltre alla proprietà di basiliche, chiese e santuari, solo a Roma si possono contare mille immobili di proprietà: uffici, appartamenti, negozi, palazzi di grande prestigio. Un patrimonio immenso, di valore incommensurabile.

A questo vanno aggiunti i valori immobiliari. L’Apsa possiede, secondo la stima del settimanale “Economy” (edito da Mondadori) 300 milioni di euro in titoli ed “investe in beni mobiliari (valuta, azioni, obbligazioni) non solo per sé ma anche per altri enti della curia romana”.

Quanto al secondo pilastro, quello dello Ior, va rilevato che la banca vaticana gestisce attualmente un patrimonio di 5,7 miliardi di euro. Questa ingente dotazione deriva dalla capacità di attrazione di depositi da parte di correntisti non residenti (visto che i cittadini del piccolissimo ma grande Stato che possono vantare di averne il passaporto sono in tutto 532 tra cardinali, alti ecclesiastici, guardie svizzere, funzionari ed impiegati laici, più altri 379 residenti: in totale 911). È vero che si tratta di residenti che in media presentano un reddito elevato: infatti il prodotto lordo pro-capite dei cittadini vaticanensi risulta essere di ben 407.095 euro l’anno. Un dato che pone i cittadini ben fortunati della Città di S. Pietro al primo posto nella classifica della Banca mondiale, precedendo il Lussemburgo, che presenta un prodotto pro-capite ben dieci volte inferiore.

Nonostante ciò è difficile ritenere che la massa dei depositi che occupa le casse dello Ior possa provenire nella sua maggior parte dall’interno delle mura del piccolo Stato. In realtà ciò che attrae i depositanti esterni ad esse è il livello degli interessi elevato che la banca è in grado di pagare; e anche, ma forse e soprattutto, il grado di segretezza che circonda le attività dello Ior, ancor più fitto da quando si sono concluse le note vicende dell’epoca di Marcinckus.

Gli interessi che vengono pagati ai depositanti s’aggirano infatti intorno al 12 per cento. Un livello che ha pochi eguali nel mondo: forse se ne trovano di simili nelle zone dei paradisi fiscali. Ecco il motivo essenziale per cui una banca che ha un solo sportello riesce a raccogliere una tale cospicua massa di depositi. Si può anche presupporre che i clienti che s’avvalgono di un tale forziere siano in grado di depositare ingenti somme: che si tratti cioè non di una clientela di piccoli risparmiatori.

Inoltre, pur essendo una banca a sportello unico, lo Ior ha legami organici con altri istituti di credito: in primis con il gruppo del finanziere cattolico Bazoli, di cui lo Ior è da sempre azionista.

Naturalmente, per caricarsi di interessi passivi così elevati, lo Ior dev’essere in grado di operare con grande successo sui mercati finanziari di ogni parte del mondo. E questo è possibile se si gioca in borsa, se si opera sulle valute, se si mettono “i piedi nel piatto”, cioè se si assumono partecipazioni azionarie soprattutto in banche estere e in società finanziarie a livello internazionale.

Qui il mistero che circonda lo Ior si fa più fitto, dopo essersi squarciato vent’anni fa con il caso del Banco ambrosiano. Quel che si sa è che il legame che allora c’era con il Banco del povero Calvi, in qualche modo è rimasto, in virtù della partecipazione azionaria nel gruppo Intesa, nel quale la versione del vecchio Banco ambrosiano (cioè il Nuovo banco ambrosiano) è stata organicamente inserita, tramite la persona di Bazoli. Ior e Inyes hanno ancora il vantaggio di “essere estero su estero” nonostante la contiguità territoriale (essendo entrambe su territorio italiano) e religiosa. 

Di investimenti all’estero dello Ior si sa poco, eccezion fatta per quelli negli Stati Uniti, dopo che l’entrata in vigore dell’euro ha cancellato il mercato valutario interno all’Europa.

Di conseguenza lo Ior ha sviluppato la sua iniziativa nell’area nordamericana. E anche per una ragione strategica, che converge con i suoi interessi finanziari: gli Usa non soltanto registrano una ripresa economica di lungo periodo, ma, a causa della forte immigrazione latino-americana, s’avviano a divenire un Paese a maggioranza relativa di cattolici. 

Sta di fatto che l’Istituto ha investito negli ultimi tempi ben 298 milioni di dollari in azioni, bond e titoli governativi statunitensi. Ma come opera questa banca, avvolta nel più geloso dei silenzi, sotto l’ala protettrice dello stesso cardinale Angelo Sodano, Segretario di Stato, le cui attività sono coperte dal segreto di Stato? Questa specie di “vascello fantasma” che ha un solo sportello, che ha un solo bancomat, che non ha sedi proprie in Italia e all’estero, che non ha mai aderito alle norme antiriciclaggio della trasparenza sui conti? Qualcosa, in tanto mistero, s’è riuscito a sapere. Mistero che non si può definire “doloroso”, almeno per quelli che ne traggono vantaggi.

Due sono i bracci per così dire secolari mediante i quali essa opera: una banca tedesca, la Deutsche bank; l’altra il gruppo Untes, nel cui capitale azionario lo Ior partecipa nell’ambito di una cordata con il “gruppo bresciano”, costituito insieme con la Banca lombarda e la Mittel. Insieme possiedono quasi il 4 per cento delle azioni di Intesa, che non è affatto poco, viste le dimensioni dell’Impero di Bazoli. Lo stesso presidente dello Ior, Angelo Caloia, che guida l’Istituto dal 1989, professore dell’università cattolica di Milano, è anche a capo di due società di Intesa: una di esse è stata costituita in Lussemburgo.

Sono talmente organici i rapporti con l’Intesa di Giovanni Bazoli che lo Ior ha delegato la società Mittel ad esercitare il diritto di voto per la sua quota azionaria in cambio di un rendimento medio superiore a quello spettante di competenza.

L’area e l’aria bresciana fanno bene alla finanza vaticana. La citata “Economy” ricorda che nel 1998 lo Ior decise di investire 100 miliardi di lire nelle azioni della Banca popolare di Brescia, che poco dopo ebbero un tale balzo in borsa che la cifra si quadruplicò nel giro di pochi mesi. Dopo aver realizzato quel felice investimento, i dirigenti dello Ior, con il professor Caloia in testa, videro crollare il titolo che aveva permesso questo straordinario guadagno. Naturalmente si congratularono con se stessi e con i loro amici della benigna Brescia.

Con questo tipo di operazioni si comprende come possano pagarsi gli interessi del 12 per cento ai depositanti. Si fa il caso dell’Unione dei medici giapponesi che nel 1998 depositò una somma di 35 mila dollari e se ne vide restituire 55 mila quattro anni dopo, con un guadagno del 56 per cento.

Né i medici del Sol levante risultano essere residenti dello Stato Città del Vaticano, né diocesi od ordini religiosi. Tali sono i titoli dei depositanti che giustificano la franchigia da ogni legge e da ogni regola internazionale. Almeno a quanto risulta dalle dichiarazioni ufficiali. Come quella, riportata sempre da “Economy”, rilasciata alla Corte distrettuale della California da Franzo Grande Stevens, avvocato dello Ior, ma anche della Fiat (siede anche nel Consiglio d’amministrazione della Ifil, la finanziaria della famiglia Agnelli). 

In tali dichiarazioni il presidente dello Ior precisa che i depositanti possono essere “i dipendenti del Vaticano, i membri della Santa Sede, gli ordini religiosi e le persone che depositano denaro destinato ‘almeno in parte’ a opere di beneficienza”. Non risulterebbe che i medici giapponesi, che nel 2002 hanno percepito un interesse del 56% per quattro anni di deposito, appartengano a tali categorie, né che abbiano versato “almeno in parte” i loro soldi a fini di beneficienza. È evidente che si tratta, con la formula del versamento “almeno” parziale di denaro a fini di beneficenza, d’una formula per aggirare un elenco restrittivo di depositanti. 

L’elenco così specificato di depositanti appare a prima vista insufficiente a spiegare l’entità del patrimonio che è chiuso nella cassaforte dello Ior. Esso è in realtà stato compilato non tanto ai fini di qualificare l’Istituto come una “banca etica” con fini che escludono il lucro o lo limitano fortemente, quanto ai fini legali e a questo scopo inviato alla Corte californiana per affermare la peculiarità dello Ior come banca dello Stato della Città del Vaticano non sottomessa a nessuna legislazione, né nazionale né internazionale. Infatti, Caloia conclude nel suddetto documento, dopo aver esplicitamente ricordato la stretta connessione tra lo Ior e la Segreteria di Stato, che la sua dichiarazione non può essere né deve essere intesa in alcun modo “come una sottomissione alla Corte” della California, né di nessun’altra Corte, e neppure “come a qualsiasi diritto di immunità sovrana”.

L’orgogliosa rivendicazione di totale immunità e di inefficacia nei suoi confronti di qualsiasi legislazione nazionale o internazionale, fa dello Ior una Banca unica al mondo, sottratta ad ogni regola, zona franca rispetto ad ogni giurisdizione esterna a quella statale della Santa Sede.

Così, un istituto di credito con un solo sportello a Roma, racchiuso tra le mura vaticane, può agire indisturbato in ogni parte del mondo, valendosi della propria immunità.

Un solo sportello cui fanno capo le 4.649 diocesi in ogni punto della terra, ognuna delle quali possiede immobili ed altri beni, religiosi e civili. Marina Marinetti, una giornalista che ha condotto di recente un’analisi dell’economia del mondo cattolico, ha usato l’espressione: “Una multinazionale con 4.469 diocesi”. Certamente, ognuna deve provvedere alle spese ed al sostentamento di un personale vastissimo, di oltre 4 milioni di ecclesiastici e di oltre settecentomila ecclesiastiche, che hanno in cura le anime di un miliardo circa di fedeli. Un numero cospicuo di queste diocesi sono povere ed hanno bisogno di aiuto. Molte altre sono però ricche, e da queste provengono anche flussi di denaro che convergono verso le finanze vaticane. La giornalista cita un caso singolare quanto eloquente.

Una rete infinita di investimenti e di partecipazioni passa in ogni parte del mondo e si riannoda a Roma. Poiché, come s’è detto, lo Ior non ha filiali, è chiaro che queste attività non possono che far capo alle sedi ecclesiali, e procedere sul filo dei rapporti che vengono tenuti nelle varie Nazioni dalle tante diocesi. A meno che non si registrino casi particolari, come quello segnalato appunto dalla Marinetti: quello delle Isole Cayman, il paradiso fiscale dei Caraibi. Scrive la Marinetti che “basta un esempio per capire dove i segreti vengono conservati: le Isole Cayman, il paradiso fiscale caraibico, spiritualmente guidato dal cardinale Adam Joseph Maida che, tra l’altro, siede nel collegio di vigilanza dello Ior. Le Cayman sono state sottratte al controllo della diocesi giamaicana di Kingston, per essere proclamate Missione sui juris alle dipendenze dirette del Vaticano”. 

Questo avviene quando si vuole assicurare il massimo di garanzia di extraterritorialità e di immunità per ogni tipo di attività che viene compiuta in loco.

Per tornare in Italia, abbiamo sottolineato il rapporto preferenziale che sussiste tra lo Ior e il gruppo Intesa guidato dal finanziere Giovanni Bazoli, un cattolico a tutto tondo, che partendo dalle ceneri dell’Ambrosiano ha edificato il più grande gruppo creditizio del nostro Paese. La conferma di questo rapporto fiduciario (certamente altrettanto saldo come quello con il presidente di Capitalia Geronzi, e in primis con il Governatore della Banca d’Italia) viene significata da un fatto di grande valore simbolico.

La banca attraverso la quale affluiscono al Papa i valori dell’obolo di S. Pietro, l’offerta diretta dei fedeli al Papa, che non passa neppure per la gestione dell’Apsa, un’offerta che nel 2002 ha assommato a 53,8 milioni di euro che vanno direttamente nelle mani della Segreteria di Stato, è la Banca Intesa. Ai fedeli è chiesto di versare il loro obolo sul conto corrente 9990000 di detta banca.

Sicuramente non mancano di usare questo conto, per il loro obolo, uomini eminenti dell’economia e della finanza, che rappresentano il gotha della parte cattolica di tutto il mondo degli affari.

Tra essi ovviamente Angelo Caloia, che oltre ad essere presidente dello Ior è stato negli anni Ottanta presidente del Mediocredito lombardo e presidente dell’Ambroveneto, la banca cattolica che insieme alla Cariplo costituì nel 1998 la Banca Intesa, di conserva con Giovanni Bazoli. Anche qui il legame stretto tra i due finanzieri risulta evidente. E tutt’oggi Caiola presiede la Sirefid, fiduciaria italiana della banca, e la lussemburghese Societé européenne de bancuq, sempre dello stesso gruppo Intesa.

Accanto a Caloia troviamo nel gruppo di testa della finanza vaticana, come vicepresidente dello Ior, un americano, Virgil Dechant, che è il cavaliere supremo dei “Knights of Columbia” un’associazione che gestisce negli Usa un fondo assicurativo che vanta un capitale pari a 47 miliardi di dollari.

Assieme a Caloia e Dechant sono nel comitato di sovrintendenza dello Ior il tedesco Theodor Pietzcher già direttore centrale della Deutsche bank; lo spagnolo José Angel Sanchez, già presidente del Banco de Bilbao (la banca che nella ristrutturazione del sistema creditizio guidata da Fazio ha vinto la competizione con il Monte dei paschi di Siena per l’accordo con la Banca nazionale del lavoro). 

Non poteva infine mancare uno svizzero: Robert Studer, fino al fatidico 1998 presidente dell’Ubs, l’Unione bancaria svizzera, che lasciò per subentrare ad un altro svizzero, Philip De Wech, anch’egli già presidente dell’Ubs. 

C’è stato sempre un occhio di riguardo della finanza vaticana e della stessa Santa Sede per il mondo bancario della Repubblica Elvetica.

Ciò è dovuto con ogni probabilità anche ad una certa gratitudine che si deve alle banche svizzere che hanno sempre protetto i contenziosi aperti nei confronti del Vaticano da parte di chi accampava diritti che la Santa Sede e lo Ior intendono non riconoscere.

Come ad esempio in un’occasione particolarmente scabrosa. Quella della richiesta da parte dei legali di 25 croati, sopravvissuti agli orrori del regime ustascia di Ante Pavelic, che reclamano la consegna da parte delle banche svizzere di lingotti d’oro per un valore attuale considerevole, corrispondente a 2.400 chili d’oro – che a loro detta sarebbero stati trasferiti nel 1948 dal Vaticano in un istituto di credito svizzero.

Quest’oro, o il corrispettivo in moneta, dovrebbe servire appunto al risarcimento dei superstiti. Il Vaticano e gli svizzeri rifiutano decisamente la restituzione.

Al contrario, negli Usa la Corte federale della California ha iniziato nel 2000 un’azione per riciclaggio nei confronti dello Ior per analoga richiesta, cui, come s’è visto, l’avvocato Franzo Grande Stevens ha inviato la dichiarazione di Caloia. Ci sono in ballo dai 250.000 ai due milioni di dollari in lingotti d’oro, che durante il secondo conflitto mondiale sarebbero stati depositati presso la Federal reserve.

Ma c’è sempre un occhio di riguardo per il mondo bancario della Repubblica Elvetica, che, come si sa, è un crocevia della finanza mondiale, dove si agisce con gli stessi metodi di segretezza e di immunità cari alla finanza vaticana.

Ecco come si è costituita sulla tolda del “vascello fantasma” dello Ior una squadra di comando alla diretta dipendenza della Segreteria di Stato, che dall’unico sportello insediato nel piccolo Stato di 44 ettari di ampiezza territoriale punta ogni giorno il cannocchiale su tutti i mercati finanziari del mondo, e invia i suoi ordini e le sue disposizioni nei quattro angoli della Terra.

Ed è difficile smentire che si tratti di una multinazionale in piena regola: probabilmente la più grande multinazionale che esista. E che sicuramente non opera secondo il detto di Cristo: “Il mio Regno non è di questo mondo”.

In questo mondo regna invece il Dio del denaro, Mammona, cui la finanza, anche quella a targa confessionale, sacrifica molte cose. Anche la dottrina sociale della Chiesa, quella che Giovanni Paolo II ha non molti anni fa codificato nell’enciclica Centesimus annus, sostenendo il diritto dei lavoratori a partecipare alla direzione delle imprese, e a diventarne comproprietari acquisendone azioni e obbligazioni. Quella che si chiama stakeholder economy o partnership economy che dir si voglia. Quella che Tony Blair ha riassunto nello slogan di successo “tutti azionisti”. 

Anche Fazio ne è stato un deciso assertore, al punto da pubblicare un Manifesto che ha visto la luce in occasione di un convegno a Salerno alla fine degli anni Novanta.

C’è addirittura una fondazione in Vaticano che ha preso il nome dall’enciclica sulla dottrina sociale della Chiesa, la Fondazione centesimus annus, di cui fanno parte trecento uomini della finanza e dell’impresa, che una volta l’anno vengono ricevuti dal Pontefice. Tra essi non manca ovviamente il gotha della finanza cattolica: a cominciare dal presidente Rossi di Montelera e dal vicepresidente Roberto Mezzotta, alla guida della Banca popolare di Milano.

Ma i discorsi sulla dottrina sociale e sull’economia etica sono scomparsi d’un colpo proprio quando la svolta dei risparmiatori italiani, cominciata alla fine degli anni Novanta, li ha portati alla ricerca e alla sottoscrizione di azioni ed obbligazioni. Sembrava che in Italia, come in Gran Bretagna, la partnership economy fosse dinanzi ai risparmiatori. Che hanno aperto la porta, ed invece di trovarsi il capitalismo diffuso vi hanno trovato il capitalismo di rapina, quello dei casi Cirio e Parmalat e di chissà quanti altri. Così 800.000 risparmiatori, in maggioranza cattolica probabilmente, sono stati spogliati delle proprie risorse.

Tutto questo sotto lo sguardo tutt’altro che vigile e severo dell’asse Bazoli-Geronzi e della stessa Banca d’Italia. Cioè di un mondo finanziario che vede sempre primeggiare, dallo Ior ai grandi gruppi bancari, a palazzo Koch, uomini di indiscutibile fede.

Si deve tener conto, infine, del vasto potere che la finanza di matrice cattolica conta nel campo delle fondazioni bancarie, che sono in possesso dei pacchetti azionari delle maggiori banche. Tra le fondazioni a guida cattolica: la Cassa di risparmio di Torino, Verona, Vicenza, Belluno, tutte azioniste del gruppo Unicredit; quelle di Firenze, Bologna, Padova e Rovigo; quella della Cariplo di Milano. Alla Fondazione compagnia di San Paolo, seconda azionista del San Paolo Imi, dopo il Banco Santander, spagnolo, si profila l’ingresso in qualità di presidente dell’avvocato Franzo Grande Stevens: il legale, come si ricorderà, dello Ior nel procedimento presso la Corte della California, oltre che uomo vicinissimo alla famiglia Agnelli.

Così il cerchio si chiude.