Ogni mattina, intorno alle 8, suor Maria Sebastiana attraversa via Porta Angelica sino alla cancellata di Sant’Anna. Varca le due colonne e percorre un centinaio di metri. Oltrepassa il portale di legno di un piccolo cortile triangolare e passa sotto l’arco che sorregge la costruzione secentesca. A sinistra, nella piazza nel cuore di Roma, due lift in divisa nera gallonata l’attendono davanti a un ascensore di cui le aprono le porte. La religiosa entra, il cancello di ferro e i battenti di mogano e vetro si chiudono alle sue spalle. Sale. La corsa si interrompe all’ultimo piano del palazzo, il quinto.
Qui la piccola suora della Misericordia fa la minutante, ossia la segretaria e sul suo tavolo passano documenti che, solo nel 2002, hanno fatto girare almeno 230 milioni di euro. Lavora nel cuore pulsante della Città del Vaticano, cioè nell’ufficio del cardinale Angelo Sodano. Nato a Isola d’Asti 76 anni fa, conoscitore di tutte le stanze della Curia Romana, il porporato è Segretario di Stato, cioè il numero due dell’organigramma pontificio dopo il Papa. E custodisce le chiavi del forziere che contiene il Tesoro Vaticano. Si tratta di una cifra importante: fonti attendibili – interne alla Curia Romana – parlano di 5,7 miliardi di euro tra contanti, oro, valute, azioni e titoli (escludendo quindi gli immobili e gli inestimabili tesori d’arte), ma potrebbero essere il doppio o dieci volte tanto, perché nessuno può dirlo con certezza visto il riserbo che copre le finanze della Santa Sede.
Sono molti gli interrogativi irrisolti che si è posto chi – studiosi, analisti, economisti – ha cercato di dipanare la complicata matassa. Perché la consistenza patrimoniale della Santa Sede non è mai stata calcolata nell’ultimo millennio. E il cardinale Sodano è il perno intorno al quale tutto ruota. I suoi uffici sono nel Palazzo Apostolico. Allo stesso piano vive Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II.
Una multinazionale con 4.649 diocesi. Il Papa è il monarca assoluto dello Stato più piccolo e al tempo stesso più ricco del mondo in termini relativi. La Città del Vaticano si estende su 44 ettari di superficie e conta 911 residenti, solo 532 dei quali hanno anche la cittadinanza. Non produce beni e i suoi servizi sono gratuiti, o quasi. Per analizzarne i ricavi non è possibile fare riferimento all’incalcolabile patrimonio, ma solo ai profitti conosciuti dei suoi investimenti, mobili e immobili, e ai versamenti delle diocesi per il sostentamento dell’organizzazione centrale della Chiesa: un totale di oltre 216 milioni di euro all’anno, quelli iscritti ufficialmente nel bilancio dell’Amministrazione patrimonio Sede Apostolica (Apsa).
Partendo da questo dato, il prodotto nazionale lordo pro capite di ognuno dei 532 cittadini è di 407.095 euro, oltre dieci volte quello del Lussemburgo (38.830 dollari nel 2002), che sta in testa alle classifiche della Banca Mondiale, mentre l’Italia è al 27° posto con 18.960 dollari all’anno. C’è però un altro elemento di cui tener conto: se la Chiesa cattolica è universale, non lo sono i suoi bilanci. Ogni diocesi – compreso il Vicariato di Roma – e ogni ordine religioso fanno storia a sé. Ciascuno gestisce un patrimonio proprio, fatto di immobili, titoli e, spesso, anche società, si finanzia con le offerte dei fedeli, redige un consuntivo ogni anno. Il Vaticano pure. Anche se le cifre e la complessità della struttura finanziaria sono di ben altro livello. Perché il Papa è il capo della Chiesa più potente del mondo, quella cattolica, con 4,9 milioni tra vescovi, sacerdoti, diaconi e professi, 792 mila religiose e 1 miliardo di fedeli. Un’organizzazione imponente, articolata in 4.649 diocesi riunite in 110 conferenze episcopali.
Il Vaticano uno e trino. Anche il concetto stesso di Vaticano è complicato: rappresenta allo stesso tempo tre entità distinte, lo Stato, la Santa Sede e la Curia Romana, che si sovrappongono senza confini giuridici ben delineati. In teoria la Città del Vaticano è l’entità territoriale, la Santa Sede è il vertice della Chiesa e la Curia Romana è la struttura organizzativa. Ma, in pratica, non esiste una distinzione tra le tre personalità giuridiche. Gli intrecci tra i ruoli, le funzioni e le responsabilità sono inestricabili. E utili. Quando il Vaticano ha bisogno dell’extraterritorialità è uno Stato sovrano che non deve rispondere alle leggi delle altre nazioni. Quando serve il peso morale e religioso è Santa Sede. Quando il problema è organizzativo entra in gioco la Curia Romana. Un rompicapo: e la struttura economica e finanziaria rispecchia queste interconnessioni.
Apsa e Ior alla cassa. La Prefettura per gli affari economici, l’organo della Curia Romana guidato dal cardinale Sergio Sebastiani, formalmente controlla i bilanci della Città del Vaticano. Ma anche quelli della Santa Sede, che usa l’Apsa per le questioni finanziarie. E quelli dell’Istituto per le opere di religione (Ior), la banca vaticana. Sulla quale da più di 20 anni, dopo lo scandalo legato al crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, vige la consegna del silenzio. Eppure lo Ior è più attivo che mai: ai suoi correntisti offre rendimenti degni dei migliori hedge fund e si stima che nelle sue casse siano custoditi più di 5 miliardi di euro. Meno misteriosa la Santa Sede lo è sui propri conti: l’ultima volta che Sebastiani ne ha parlato ha esibito un rosso di 13,5 milioni di euro, più altri 16 per lo Stato del Vaticano. Ma si trattava dei bilanci del 2002. Nei quali, peraltro, non figurano né le offerte dei fedeli e delle istituzioni, né i proventi delle università pontificie o delle strutture sanitarie come l’Ospedale Bambin Gesù di Roma.
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L’ultima volta che se ne parlò fu alla fine degli anni Ottanta, quando si chiuse il caso del Banco Ambrosiano. Per uscire dal crac lo Ior, allora guidato da monsignor Paul Marcinkus, pagò 250 milioni di dollari ai liquidatori della ex banca di Roberto Calvi (meno di un quarto dei 1.159 milioni che, secondo il ministro del Tesoro dell’epoca, Beniamino Andreatta, doveva alle consociate estere dell’azienda di credito milanese). Da quegli anni nell’Istituto per le opere religiose molte cose sono cambiate, altre sono rimaste identiche.
Giovanni Paolo II lo ha riformato nel 1990, affidandone la responsabilità a «laici cattolici competenti» e riservando ai prelati una funzione di vigilanza. Dal 1989 alla guida dell’istituto siede Angelo Caloia, professore dell’università Cattolica di Milano, ex presidente del Mediocredito Lombardo e oggi a capo di due società di Banca Intesa, una delle quali costituita in Lussemburgo. Identico rispetto a 20 anni fa, invece, è il riserbo che circonda le attività della banca vaticana.
Lo Ior ha una sola sede, naturalmente dentro le mura della Città Stato. Non ha altri sportelli e dispone di un unico bancomat. All’estero, Italia compresa, non ha un ufficio, una rappresentanza, un punto d'appoggio fisico.
E non ha neppure accesso diretto ai circuiti finanziari internazionali. Per operare in Europa si avvale di due grandi banche, una tedesca e una italiana. Si fa il nome di Banca Intesa, della quale lo Ior possiede il 3,37% insieme con la Banca Lombarda e la Mittel (il cosiddetto Gruppo bresciano dei soci), e di Deutsche Bank; ma nessuno lo conferma con certezza. E non aderisce alle norme antiriciclaggio sulla trasparenza dei conti. Una banca strana, regolata dalla consegna del silenzio in nome del segreto di Stato.
Tutto sotto il controllo della Segreteria.
Il riferimento è la Segreteria di Stato del cardinale Angelo Sodano. È stato lo stesso Caloia a spiegare l’essenza dello Ior in un documento inedito che Economy pubblica in esclusiva. In una dichiarazione scritta per la corte distrettuale della California e presentata attraverso Franzo Grande Stevens, da 15 anni avvocato dello Ior e membro nel consiglio di amministrazione di Ifil, la finanziaria che controlla Fiat, il presidente della banca vaticana ha rivelato che «i depositanti sono i dipendenti del Vaticano, i membri della Santa Sede, gli ordini religiosi e le persone che depositano denaro destinato, almeno in parte, a opere di beneficenza». Almeno in parte.
Caloia ha affermato che «nel mio ufficio è la norma fare riferimento al cardinale Angelo Sodano». E ha aggiunto: «Il segretario di Stato ha un notevole controllo sulla progettazione e l’esecuzione di tutte le nostre attività, compresi i budget e le operazioni». Una lunga e illuminante dichiarazione, che termina sottolineando la peculiarità dell’Istituto: l’immunità che deriva dall’essere una banca di Stato, non sottomessa ad alcuna legislazione, né nazionale né internazionale. «Niente in questa dichiarazione» ha infatti ribadito Caloia, concludendo la sua testimonianza, va inteso, né può essere preso come una sottomissione alla giurisdizione di questa Corte, o una rinuncia a qualsiasi diritto di immunità sovrana».
Interessi al 12% annuo.
Al suo arrivo allo Ior, 13 anni fa, Caloia trovò nei forzieri 5 mila miliardi di lire e titoli soprattutto esteri. Oggi lo Ior amministra un patrimonio stimato di 5 miliardi di euro e funziona come un fondo chiuso, come ha spiegato sempre Caloia. In pratica, ha rendimenti da hedge fund, visto che ai suoi clienti garantisce interessi medi annui superiori al 12%. Anche per depositi di lieve consistenza. Un esempio? La Jcma, un’associazione di medici cattolici giapponesi, nel 1998 ha depositato 35 mila dollari presso la banca vaticana. A quattro anni di distanza si è ritrovata sul conto quasi 55 mila dollari: il 56% in più. E se i clienti guadagnano il 12% medio annuo, vuol dire che i fondi dell’Istituto rendono ancora di più. Quanto, però, non è dato saperlo.
Cayman sotto il controllo del Vaticano.
Quindi lo Ior investe bene. Secondo un rapporto del giugno 2002 del Dipartimento del Tesoro americano, basato su stime della Fed, solo in titoli Usa il Vaticano ha 298 milioni di dollari: 195 in azioni, 102 in obbligazioni a lungo termine (49 milioni in bond societari, 36 milioni in emissioni delle agenzie governative e 17 milioni in titoli governativi) più 1 milione di euro in obbligazioni a breve del Tesoro. E l’advisor inglese The Guthrie Group nei suoi tabulati segnala una joint venture da 273,6 milioni di euro tra Ior e partner Usa. Di più è impossibile sapere.
Soprattutto sulle società partecipate all’estero dall’istituto presieduto da Caloia. Basta un esempio per capire dove i segreti vengono conservati: le Isole Cayman, il paradiso fiscale caraibico, spiritualmente guidato dal cardinale Adam Joseph Maida che, tra l’altro, siede nel collegio di vigilanza dello Ior. Le Cayman sono state sottratte al controllo della diocesi giamaicana di Kingston per essere proclamate Missio sui iuris, alle dipendenze dirette del Vaticano.
Le beghe dei condomini dello Ior.
E in Italia? Anche Oltretevere lo Ior mantiene il senso degli affari. I diritti di voto dei 45 milioni di quote di Banca Intesa (per un valore in Borsa di circa 130 milioni di euro) sono stati concessi alla Mittel di Giovanni Bazoli in cambio di un dividendo maggiorato rispetto a quello di competenza. E quando la Borsa tira, gli affari si moltiplicano. Un esempio? Nel 1998 non sfuggì a molti l’ottimo investimento (100 miliardi di lire) deciso da Caloia nelle azioni della Banca popolare di Brescia: in meno di 12 mesi il capitale si quadruplicò, naturalmente molto prima del crollo del titolo Bipop. Ma il patrimonio dello Ior non è solo mobile. E dell’Istituto si parla anche in relazione alle beghe con gli inquilini di quattro condomini di Roma e Frascati che lo Ior, a cavallo fra il 2002 e il 2003, ha venduto alla società Marine Investimenti Sud, all’epoca di proprietà al 90% della Finnat Fiduciaria di Giampietro Nattino, uno dei laici della Prefettura degli affari economici della Santa Sede, e oggi in mano alla lussemburghese Longueville. Gli inquilini, però, affermano di sentirsi chiedere il pagamento del canone di locazione ancora dallo Ior. Che nei documenti ufficiali compare anche come Ocrot: Officia pro caritati religionisque operibus tutandis, con il codice fiscale italiano dell’istituto: 80206390587.
QUELL’ASSEGNO DA 2,5 MILIONI FIRMATO DAI CAVALIERI DI COLOMBO
Per il 25esimo anniversario di pontificato, Giovanni Paolo II il 25 ottobre 2003 ha ricevuto un assegno da 2,5 milioni di dollari, la rendita di un fondo d’investimento americano da 20 milioni di dollari dedicato a lui, il Vicarius Christi Fund. Il denaro è gestito dall’ordine cavalleresco cattolico più grande del mondo: The Knights of Columbus, i Cavalieri di Colombo, che conta su 1,6 milioni di membri tra Stati Uniti, Canada, Messico, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Filippine, Bahamas, Guatemala, Guam, Saipan e Isole Vergini. Alla Congregazione per le cause dei santi stanno vagliando la canonizzazione di Michael McGivney, che ha fondato l’ordine 122 anni fa nel Connecticut.
Un omaggio a un’associazione che da anni vanta legami molto stretti con la Santa Sede. Il suo cavaliere supremo, Virgil Dechant, è uno dei nove consiglieri dello Stato Città del Vaticano e anche vicepresidente dello Ior.
Mentre gli utili del Vicarius Christi Fund, nato nel 1981, sono consegnati ogni anno a Giovanni Paolo II nel corso di un’udienza riservata ai cavalieri americani. Con i 2,5 milioni di dollari regalati a Karol Wojtyla il 9 ottobre scorso, il totale delle donazioni dell’ordine cavalleresco al vicario di Cristo ha superato i 35 milioni di dollari. Nulla, in confronto ai 47 miliardi di dollari del fondo assicurativo sulla vita gestito dai Cavalieri di Colombo, al quale Standard & Poor’s assegna da anni il rating più elevato.
L’ordine investe nei corporate bond emessi da più di 740 società statunitensi e canadesi e solo nel 2002, piazzando polizze sulla vita e servizi di assistenza domiciliare ai suoi iscritti attraverso 1.400 agenti, ha incassato 4,5 miliardi di dollari (il 3,4% in più rispetto al 2001). Una parte delle entrate, 128,5 milioni di dollari, è stata girata a diocesi, ordini religiosi, seminari, scuole cattoliche e, ovviamente, al Vaticano che nel 2002, tra la rendita del fondo del Papa, gli assegni alle nunziature apostoliche di Usa e Jugoslavia, il contributo alla Santa Sede nella sua missione di osservatore permanente all’Onu e quello per il restauro della basilica di san Pietro, ha ricevuto dai Cavalieri di Colombo 1,98 milioni di
dollari.
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Tutto cominciò con 750 milioni di lire in contanti più 1 miliardo in titoli di Stato (quello italiano) col 5% di rendita annua. A tanto ammontava l’indennizzo che il 27 maggio 1929, in esecuzione dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio, chiuse una volta per tutte la «questione romana», sorta nel 1870 con l’annessione della capitale al Regno d’Italia. Oggi, l’indennizzo incassato dalla Chiesa cattolica nel 1929 sarebbe pari a 1,35 miliardi di euro, dei quali 580 milioni in contanti e 770 in obbligazioni. Dove finì questo denaro? Nelle casse dell’allora Amministrazione dei Beni della Santa Sede. Che, dal 15 agosto del 1967, è la Sezione Ordinaria dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (Apsa). I cui 75 dipendenti, tra impiegati e funzionari, gestiscono un patrimonio consolidato di 700 milioni di euro, sotto la direzione di un segretario generale, monsignor Claudio Maria Celli, la supervisione di una commissione composta da sette cardinali presieduta da monsignor Attilio Nicora, uno dei padri dell’8 per mille, e soprattutto la competenza di un pool di laici scelti nel gotha dell’economia e della finanza mondiali.
L’euro made in Vaticano.
L’Apsa è in pratica la Banca centrale della Città del Vaticano e come tale è riconosciuta dal Fondo monetario internazionale. Tra i suoi compiti c’è anche quello di coniare moneta. Ma svolge anche funzioni di Tesoreria e gestisce gli stipendi dello Stato come fa, di solito, un ministero dell’Economia. Nel 1998 il Consiglio dell’Unione europea ha autorizzato a emettere ogni anno 670 mila euro, con l’aggiunta di 201 mila euro in occasione dell’apertura di un Concilio ecumenico, di un Anno santo e della Sede vacante. Il valore commerciale delle monete coniate in Vaticano è superiore a quello facciale perché sono in gran parte indirizzate al mercato dei collezionisti numismatici.
Bilanci della Santa Sede in deficit.
In Vaticano nessuno parla volentieri di denaro con i giornalisti. Economy ha chiesto invano un colloquio con i prelati delle istituzioni finanziarie o con il portavoce del Vaticano, Joaquín Navarro Valls. Solo il cardinale Sergio Sebastiani, presidente della Prefettura per gli affari economici, una sorta di organo di controllo sulle attività finanziarie del Vaticano annuncia l’avanzo o il deficit dello Stato. Da lui si sa che la Città del Vaticano, per provvedere alla gestione del territorio e fornire supporto logistico, ha 1.511 dipendenti (quattro dirigenti, 75 religiosi e 1.432 laici) e che ha chiuso i conti del 2002 con un saldo negativo di 16 milioni di euro. I bilanci della Santa Sede, in pratica quelli dell’Apsa, sono, invece, alla luce del sole. O quasi. L’amministrazione ha 2.659 lavoratori, di cui 744 ecclesiastici, 351 religiosi e 1.564 laici. E nel 2002 ha registrato un deficit complessivo di 13,5 milioni di euro, 216,5 di entrate e 230 di uscite.
Dalle diocesi 85 milioni.
La Sezione Ordinaria dell’Apsa si occupa della gestione economica della Curia Romana (Segreteria di Stato, congregazioni, consigli, tribunali, Sinodo dei vescovi e uffici vari, oltre al Fondo pensioni istituito da Giovanni Paolo II nel 1993 con una dotazione di 10 miliardi di lire), che nel 2002 hanno assorbito risorse per 106 milioni di euro. Per coprire questi costi il Vaticano chiede aiuto alle diocesi invitando i vescovi a venire incontro, secondo le proprie disponibilità, alle necessità della Curia. Ma i 4.649 vescovi non hanno tirato fuori che 85,4 milioni di euro. Facendo chiudere il settore con un rosso di 20,6 milioni.
Mille immobili a Roma.
In rosso, ma solo di 1,6 milioni, sono anche le istituzioni mediatiche (Radio Vaticana, Osservatore Romano, Tipografia Vaticana, Centro Televisivo e Libreria): 40,8 milioni di ricavi a fronte di spese per 42,4 milioni. Si tratta di un settore talmente strategico per la Sede Apostolica che, per tappare il buco 2001 di 21,6 milioni, si è fatta aiutare dal Governatorato della Città del Vaticano con «un rilevante contributo». A rimpinguare le casse dell’Apsa sono altri settori: quello immobiliare innanzitutto, ancora in mano alla Sezione Ordinaria. Un patrimonio immenso costituito soprattutto da basiliche e santuari. Il resto, vale a dire 1.000 immobili tra uffici, negozi e appartamenti a Roma (compreso l’ultimo acquisto: un palazzo in via della Conciliazione, stimato 50 milioni di euro) nel 2002 ha reso alla Santa Sede 19 milioni, 25 di uscite e 44 di entrate.
Titoli in perdita.
Altri fondi arrivano dal recupero di accantonamenti prudenziali superati e dalla cancellazione di posizioni debitorie scadute: 6 milioni nel 2002. Ai quali, se non ci fossero la crisi dei listini e le fluttuazioni dei cambi, avrebbero potuto sommarsi i ricavi del secondo ramo dell’Apsa: la Sezione straordinaria. La quale dispone di un patrimonio di circa 300 milioni in titoli diversi e investe in beni mobili (valuta, azioni, obbligazioni) non solo per sé, ma anche per conto degli altri enti della Curia Romana. La gestione finanziaria nel 2002 non ha dato grandi soddisfazioni: la Sezione straordinaria ha incassato 40,4 milioni di euro, ma ne ha persi 56,7. Nel 2001, invece, le cose erano andate molto meglio: la Santa Sede aveva portato in cassa, operando in Borsa e investendo in cambi, 32,9 milioni di euro.
Ma la perdita è relativa.
Quindi il deficit di Santa Sede e Città del Vaticano ammonta a un totale di 29,5 milioni di euro, che avrebbero dovuto far saltare la gratifica di circa 500 euro ai circa 4 mila dipendenti vaticani per il 25esimo anniversario di pontificato di Wojtyla. «È stata puntualmente pagata il 19 ottobre, perché avrebbe dovuto non esserci?» replicano stupiti all’Apsa. I soldi non mancano e chi lavora al Palazzo Apostolico lo sa bene: quello che viene reso pubblico dal cardinale Sergio Sebastiani è solo il bilancio «delle diverse amministrazioni vaticane che entrano nell’area di consolidamento». Nell’elenco non figurano strutture che comunque dipendono dall’Apsa, come le università pontificie, l’ospedale del Bambin Gesù, i santuari di Loreto o quello di Pompei, tanto per citarne solo alcune. Inoltre non sono inclusi nei conti i luoghi di culto come San Pietro, che compaiono in bilancio per una cifra simbolica.
L’obolo di 52 milioni per Wojtyla.
Ma, soprattutto, non figura alla voce entrate dei bilanci pubblici la cosiddetta massa oblativa – cioè le offerte che, sotto varie forme, affluiscono alle casse vaticane – che non contribuisce a coprire il fabbisogno del conto economico. Eppure basterebbe ricorrere, per esempio, a quel che viene incassato tramite una pratica benedetta da Pio IX: quella dell’Obolo di San Pietro, la raccolta di offerte al Papa destinate alle opere ecclesiali, alle iniziative umanitarie e al sostentamento delle attività della Santa Sede, che nel 2002 ha portato nelle casse della Segreteria di Stato 52,8 milioni di euro, in crescita dell’1,8% rispetto al 2001. Tradizionalmente viene effettuata il 29 giugno, festa degli apostoli Pietro e Paolo, ma in realtà le offerte vengono raccolte ogni giorno anche sul conto corrente postale 75070003 e sul conto corrente numero 9990000 di Banca Intesa. Ma l’Apsa sull’Obolo di San Pietro non mette mano.